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IL CLAMORE DELLE LUCCIOLE

Testo di JOËL BASTARD, in scena Sandrine Bonnaire voce narrante, Erik Truffaz, musiche.

Si racconta l’erranza di un poeta nella città, Sandrine ed Erik si accordano in totale complicità, con piacere e curiosità.
Un’esperienza sonora e fisica, un vagare senza meta tra incontri improbabili, suoni sospesi e silenzi osceni.

a Franck Deweare, ad Alain Fisette

Iniziamo una frase, qualche parola ci arriva dall’informe e continuiamo a leggere ciò che è scritto, trascinati dal piacere e dalla curiosità.  Senza indovinare nulla della caduta, del vicolo cieco né del possibile volo, della fine del viaggio.  Allo stesso modo camminiamo in una città straniera, di porta in porta, di volto in volto.  Non sappiamo nulla di questo giorno, dell’ultima porta né dell’ultima faccia.  Una frase svanisce, le mani strette alla ringhiera di un balcone, una città negli occhi.

Sto uscendo. Devo andare. Camminare per le strade, ascoltare la città.  Guardare i gradini delle case. Vedere gli abitanti entrare e uscire da queste case.  Più che altro devo andare a vedere il fiume, il sentiero che cammina, il Magtogoek degli Amerindi, il fiume dalle grandi acque. Il Saint Laurent.  Ma forse non ci sarà più.  Forse il fiume sarà scomparso nel profondo della notte nel cervello di un uomo che lo sognava.  Forse il fiume, con tutti i suoi carichi di mele dolci, sale e farina, scorre per sempre nel cranio di uno sconosciuto scomparso nella foresta.  Forse il fiume che vediamo lì è un’illusione, il riflesso del pensiero di un uomo disteso sotto i rami e che il sentiero che percorre lo protegge adesso dalla sua assenza.

Allacciandomi le scarpe per la prima volta qui, mi tornano in mente vecchie camminate.  Discendere colline, sfiorare prati, costeggiare fiumi, muri e barriere. villaggi e foreste.  Addentrarsi in territori.  È ora di raggiungere il fiume dalle grandi acque. La giornata è quasi finita.

I clochards dormono lontano dai muri, lontano dall’urina. I condannati ci dormono dentro.
Le sirene delle ambulanze ridacchiano per le strade e dal ventesimo piano dove vivo da poco, bevendo un caffè all’aperto, ci si prende per Edward Limonov che trangugiava la sua zuppa dall’alto del suo palazzo di New York e pensiamo: inghiottirò anche la città, io, il povero maggiordomo.  Ma non lo facciamo.  Diventiamo al tramonto della vita, tornati sulla terra, collezionisti di momenti perduti.  Lasciamo lassù in cima, sul bordo di un terrazzo, qualche avanzo di cucina per uccelli improbabili.

La necessità di salire per vedere da lontano dove abitiamo.  Dal Mont Royal, si può vedere la propria strada, il palazzo, il balcone e più lontano anche il paese da cui proveniamo.  La necessità di specificare dove viviamo e da dove veniamo, ma da lontano.
Come se la luna facesse fatica a restare immobile sulla città.
In questo frastuono luminoso, questo andirivieni per strada, il rumore dei tacchi sotto gli alberi neri del piccolo parco Saint-Louis.
Urla di sotto.  Grida alla città di tacere.  L’uomo vorrebbe che tutto finisse.  Le luci, le sirene con i corpi malati, le urgenze, gli infermieri che fumano la schiena poggiata all’ambulanza, aspettando il prossimo trasporto di carne ferita.  Urla mentre l’uomo vorrebbe silenzio e che le tentazioni si assopissero nei caprifogli scarni del monte. Servirebbero divani per gli uomini distrutti nei magazzini bui di birrerie monumentali.

Vorrebbe calpestare un prato sul ponte Jacques Cartier.  Un prato che attraversa il fiume dove gli animali potrebbero brucare la quiete dell’azzurro.  Prende a calci la spazzatura e insulta suo fratello a cui chiede soldi.
È intrappolato.  Non può più, non sa più dire di sì al capo.  I suoi muscoli sono atrofizzati e sullo schermo del televisore disteso per strada contempla il suo riflesso sull’asfalto invaso dallo scintillante capogiro delle macchine.  Nel ribollire notturno spera solo una cosa, che tutto finisca.  Non sa cosa fare di quella briciola di speranza nel fondo della sua scarpa che lo fa zoppicare tra la folla.

      Chi mi dirà se devo scendere dall’alto ponte in modo che i miei occhi vaghino tra quelli della Montreal più profonda.

      Camminare in città è senza riposo, Sainte-Catherine lo dimostra.  Lei che si dona pienamente e subito si riprende l’oggetto del nostro desiderio.  Gli alberi faticano a mantenere la loro ombra in pace.  I cavalli sfiancati camminano per la vecchia Montreal, a testa china, il muso incollato ai sanpietrini.  Color gomma da masticare, biascicano la strada. Trasportando il vecchio mondo da una storia dimenticata a un’altra incerta.

Una marea di equinozio. Un rumore di fiume immenso. Un rumore di risacca, il mare con molti scogli.  Scogliere pubblicitarie.  Un rumore di vento tra le rocce e voci aspre e tenere che schioccano poi si addolciscono.  Dei camion attaccano la notte.  Lo stridore delle macchine, una fanfara di penne.  Un uomo parla con quello che passa dall’altra parte della strada.

      Alcune erbe gialle, fiere come sparvieri come conviene a questa altezza, scosse da raffiche di vento e pioggia, non si preoccupano di dove vivono. Crescono, punto e basta!

      Una volta che i tuoi cari se ne siano andati per sempre, puoi viaggiare senza preoccupazioni.  Ti mancheranno ovunque tu risieda.

      Ora i cento campanili di Montreal risuonano ai quattro venti.  Ci saranno priori a scendere nelle piazze, ad attraversare le burrasche.  Aggrapparsi a un ombrello capovolto come un guanto e che non serve più.  Gli omicidi in abbondanza in televisione non fanno male a nessuno.  Ordineremo un piatto messicano e un drink.  Sai, non siamo obbligati a fare l’amore.  Il cielo non è altro che una nuvola grigia.  E se mettessimo una bella spruzzata di maionese sulla ringhiera del balcone e del ketchup nella fioriera.  Serve del colore al tempo che passa sui tetti.  È insopportabile questa mancanza di visione.

       Ancora una volta arrivo in ritardo.  Dopo i lillà e i gelsomini, i caprifogli e le verghe d’oro.  Dopo le peonie sotto le scale, i girasoli nei piccoli giardini.

       Mont Royal è solo un bubbone indicibile nella cornice di vetro dei nostri salotti.  Una macchia più scura, uno sfogo di nebbia. L’oggetto di tutte le fantasie urbane.

Vecchi padri di famiglia attraversano parchi ghiacciati.  Mani in tasca, tagliano in diagonale un parco deserto. Si uniscono agli amici nei bar italiani.  Poggiati alla vetrata, discutono di ciò che hanno perso e dei piccoli successi.  La casa.  La figlia tornata in Europa. La pittura della cucina appena rifatta.  Il viaggio a Milano per i cinquant’anni di matrimonio.  La schiena contro il vetro, discutono del prossimo inverno.  Non hanno più bisogno di guardare fuori, il marciapiede, le facciate delle case.  Il distributore di benzina che regala un po’ di spazio al quartiere soffocato dai mattoni rossi.  Mori, il parrucchiere, anche lui seduto di spalle alla strada, legge il suo giornale.  Il quartiere è completamente immerso nel magma della loro memoria. Bisognerebbe che un bel mattino tutto sia coperto di neve blu affinché restino fuori e tacciano come bambini di fronte alla prima volta.

        Decido di entrare in un caffè dopo tutti questi giorni in strada.  Anche gli uccelli sono seduti all’interno.  I caffè sono sempre grandi, può sempre fare freddo.

I clochards si lasciano andare sotto le belle scale di Montreal.  Come dappertutto, si lasciano andare in posti bellissimi.  Roma, Parigi, Ginevra… abbandonati dai luoghi, si rannicchiano in attesa della neve.  Per Halloween, lanceranno zucche succose nello spazzaneve per far credere all’impiegato del comune che le loro teste sono esplose mentre dormivano troppo profondamente sotto la coltre bianca.

 Mi addormento qui in un enorme cervello.  Un pensiero tra centinaia di migliaia di altri.  Uno di quei pensieri che vanno a piedi sotto le facciate degli edifici, invisibili tra le vetrate.  Nelle arterie congestionate circolano altri pensieri nelle automobili. Qui mi addormento in un immenso sogno. Sogno tra i sogni.  Lampeggiano sulle mie palpebre i bagliori ammalianti di un cielo che vola da una stella all’altra. Qui mi addormento sfinito dal desiderio degli altri.  Di tutte queste mani protese nel vuoto.
Pensato da colui che arriva, aspetto il mio turno.

Squartandomi sui tetti fumosi di Montreal.  Il desiderio di scrivere c’è, lascia tracce rumorose, le copre.
Ho camminato per giorni in questa città. Fino allo sfinimento.  La calma di una sedia al centro del soggiorno mi aiuterà senza dubbio ad aprire gli occhi sull’invisibile.

Almeno, se non so cosa scrivere quando il desiderio è fermo, darò un’occhiata a questa seducente luce che fa il marciapiede.
Incisa a lettere d’oro nel marmo di una panchina su cui non mi aspetto niente e nessuno.  I camion percorrono una strada fredda e brutta, consegnano i loro pacchi di cibo di campagna.  Sono malmesso come questo marciapiede dove non c’è niente. Alcuni solitari, le mani in tasca, sono già come in inverno.  Sono malmesso, non si scrive niente.  La città è rumorosa, i fari sono ancora accesi.  Questo lato del Mont Royal manca di eleganza.  I bambini rosa si stringono al petto un peluche con l’illusione di essere accompagnati meglio.
I gabbiani sono in città e vengono investiti come tutti.

Spesso quando si viaggia, ci si può sedere in un parco senza nome, grigio, sporco e privo di interesse.  Possiamo così, non aspettarci nulla e interrogarci vagamente sulla nostra situazione.  Un po’ da lontano.  Si riesce a malapena a sentire la domanda.  Non la capiamo davvero.  Quindi ce ne poniamo un’altra altrettanto incomprensibile. Una domanda scaccia l’altra.  Il parco può essere vuoto con piccioni che rovistano, topi o scoiattoli, è lo stesso.  La città in questo caso è orgogliosa dei suoi ratti screziati.

Un ombrello nero può costeggiare lentamente il parco.  Una donna in tuta bianca, immersa nella musica e concentrata sulle sue gambe, può attraversarla senza vederlo come un lampo musicale per sentirsi bene in città.  Possiamo alzare gli occhi su una quercia danneggiata dalla mancanza di spazio in strada per i suoi rami.  Pensare a qualcos’altro.  Non sappiamo mai a cosa.  È curioso e sempre dopo, molti anni dopo, che ricordiamo quel momento diventato inestimabile e la felicità di aver trascorso un periodo lì, da nessuna parte. Una volta tornati, a migliaia di chilometri da quel rifugio, vorremmo ritrovare il nome del parco in cui ci eravamo così bene ripresi da tutti i pensieri contraddittori che ci preoccupavano.  E ricordiamo teneramente il bagliore bianco di una donna senza volto.

Dico che lavoro fuori, cammino e scrivo.  Sono fuori, per strada, ma non esco da me.  Nonostante sforzi sovrumani, non esco da me.  Tutto quello che percepisco esiste attraverso di me. Questo fenomeno è noto a tutti e mi stanca.  Forse è solo quando mi adeguo al tempo, per esempio in questo parco senza importanza, che posso tentare una via d’uscita.

Fa freddo nel Carré Saint-Louis.  Leggo “Leçons pour un lièvre mort” di Mario Bellatin.
Cerco sempre negli altri scrittori quello che non esiste in me.  Una sorta di sincerità.  Una efficacia narrativa.  Una buona battuta sulla tastiera della macchina da scrivere. Guardo la punta nera del pennarello sul mio taccuino, la mente annegata dal baccano della fontana.

        La poesia mi ha abbandonato sul lato inferiore della pagina.  Prendo appunti e continuo a camminare.  Faccio quello che posso.  Lo immagino sotto ogni cosa.  Sorgono altre domande sulla scrittura del mondo e sulla sua eco.  Altre domande sorgono e di nuovo ingombrano la visione.  Tornerò quindi in studio per affilare i miei strumenti. Iniziano seriamente a perdere il loro tranchant.

Tra due sogni, voglio scendere in strada sotto il grande soffitto nero che rende le luci basse più umane.  Voglio camminare negli specchi e le parole bianche.  Esaurire la mia presenza ai movimenti della città.  Sulle orme del vagabondo, un istante nel suo specchio, il luccichio delle torri.

Percorro i vecchi binari della ferrovia, insieme a volpi, puzzole, alci, procioni e caribù.  I passeggeri del tempo continuano ad andare, invisibili.  Di tanto in tanto lascio passare un treno fantasma.  La donna seduta nella velocità, che regala i suoi occhi intensi al paesaggio, custodisce in sé il silenzio di tutti gli amori. Tornando alle traverse che scandiscono la visione, voglio scrivere il trasporto di città e uomini.  Di chi ci va laggiù con le sole mani e tornerà senza niente perché bisogna pur vivere. Voglio cantare la ruota che prende il robusto come l’elegante, il giaguaro come il moscerino. Il cielo è un dettaglio del cosmo, un bagliore paesano per le nostre razze.  E il treno fantasma corre in un paese che non c’è più.  Sotto le traverse di uno spazio infinito fischia una canzone che il blues riconosce.

        A volte di notte vado così lontano, anche se non ricordo dove ho girovagato, che mi sveglio inquieto.  Sono tornato, ma da dove?

Possiamo osservare una giovane ragazza contemplativa seduta sull’erba, la schiena appoggiata al tronco più grande.  E che guarda vagamente le macchine che passano rue Sherbrooke.  Scegliere l’albero giusto per esacerbare la propria natura.
Bridget discuteva sempre con la sua ombra in fondo al parco.  La trovava troppo spessa.  Troppo pesante per la strada costeggiata di noccioli.  Aveva preso un appuntamento con un amico ma se ne era già pentita.
Porta alcuni colchici sulla spalla e sotto, la firma della madre.  Sul piede, il numero 57 della motocicletta di suo fratello vicino all’impronta della zampa del gatto. Tre tatuaggi dei cari scomparsi che mi mostra come ci si spoglia di tutto.  Tre tatuaggi sulla pelle di una giovane donna che aspetta un bambino, mangiando un gelato di tutti i colori da un barattolone di cartone con un cucchiaio grande.

Bridget è venuta a trovarmi.  Le gambe coperte di calze marrone su un divano verde, ha mormorato: quant’è nero quello che stai scrivendo.  Con te anche lo scoiattolo diventa un topo.  Ma lo scoiattolo non è altro che un topo.  La bellezza è in tutte le cose che conosciamo. Le avevo parlato del clamore delle lucciole. Dalla dolce insegna accesa dei taxi che sfrecciano per viali dai pazzi negozi con i loro oggetti inutili così belli di notte come gioielli. Gli hotel dagli ritmati accoppiamenti di fine serata all’uscita da un pub.  Siamo sulle rive del Saint Laurent.  I trasportatori risalgono il fiume dall’estuario fino a Pointe au Père.  La ristrettezza delle acque li farà tornare in mare per altri carichi.  Come questo viso che tengo tra le mani e che appassisce con l’età, la bellezza di una rosa quando in un vaso non cresce più.  Ritorna alla sua essenza originaria.  La bellezza di un viso che svanisce. La parola topo porta la peste, ma non è più.  Queste divagazioni mi spossano. Queste giustificazioni servono solo a scrivere ancora un po’.  Voglio rimanere nel nero percorso del mio pennarello sul riff di una chitarra.  Questo è scrivere in un bar in compagnia di nessuno.  Recito lì la grande figura del musicista che cammina sul palco, salutando solo una massa.  Non riuscire a smettere di scrivere.  Spinto dall’esigenza del posto che richiede di parlare.  Di parlare ancora.  Ho lasciato Bridget sul divano per bere una birra scura alla sua memoria.

Nel freddo umido della strada, portando dentro di me il libro di un altro.  Essere nella travolgente inerzia della lettura.
Dico di no, ancora no con la testa alle mani tese. Troppe mani tese per tornare a casa. I mendicanti hanno finito di uccidere l’eco di un libro in me. Domani darò qualcosa al primo vagabondo che incontro!

Adesso aveva paura di scrivere, dopo aver spezzato, a fine pasto, un biscotto in un ristorante cinese, da cui era caduta una frase stampata in rosso, ‘ Non ascoltare le parole vuote di una lingua vuota’.  Vagava per la città senza pensare a niente e la sua solitudine cresceva nel ronzio nauseante di una futile animazione. I clochards divennero ai suoi occhi signori innocenti.  La loro lentezza gli dava sollievo dalla grande illusione urbana. Il suo soggiorno in Nord America era ormai insignificante e quel pezzo di carta che teneva in tasca gli rovinava la giornata per sempre!

E poi ciglia ammorbidite dalla luce.

Notte fonda e nessuno che io possa baciare.
Immobile nelle tempeste, devo riprendere il cammino per incontrare coloro che stanno andando.
La quiete è impossibile qui, la strada ci obbliga a divenire o a somigliare a quel mucchio di biancheria sotto le scale. Vedo una mano persa nella sporcizia accanto a una bottiglia di vino rovesciata, anche essa lasciata lì, nel torbido.
È così che guadagno la metà della mia vita, l’altra metà la do.
Gli scheletri tornano da un lungo pellegrinaggio.  Riportano da lontano tremanti visioni di luce, e ora lasciano passare i lampi della città.

        Niente guaiti di volpi rosse.  La vetta, la radura, la felce, il serpentino, le scarpate, il versante roccioso, il pedemontano, la placida costa.
A Roslyn, i piccoli giardini s’infiammano davanti a porte chiuse e finestre vuote. Le ortensie lasciano entrare la luce. Eppure l’ombra freme nelle foglie accartocciate del mattino.
Qui ho solo orecchie per i camion, i cassonetti, le gru, le sirene. Gli strappi di lamiere, le piogge di scintille delle smerigliatrici che illuminano le fosse.  Se per caso in questo frastuono un uccello riesce a cantare nel villino, è già troppo tardi. La strada ha ripreso il sopravvento fino a soffocarlo con la sua betoniera distruggendo il cespuglio che lo riparava.
Le ultime oche selvatiche nel rosa e nell’azzurro, nella sera lattiginosa, attraversano il cielo di una città che accende le sue luci notturne.  Un aereo a elica loro la strada per aggiungere una seconda traiettoria allo sguardo concentrato sulla seconda malinconia.
Il cervello libero come quello di un angelo, è così che scriviamo in città!  Mi sposto a mille luci da qui e nel bosco più scuro prendo di mira una finestra.  La strada è senza luna, ma il percorso agevole.  Lungo cammino.  Mi avvicino, busso alla porta.  Mi aprono, nessuno!  Mi siedo alla finestra nel bosco più scuro e aspetto.

Bridget è venuta stanotte mentre dormivo in via Duluth. La sua figura affilata dal vento. Un orecchino calpestato sul marciapiede. La luna d’argento ammaccata tra le stelle di sangue fuori da un bar.  Non si decide a scegliere, ubriaca sulle ginocchia di tutti gli uomini, una dose di cocaina in tasca.

        Bridget è passata come un sogno. Con lei è sempre la stessa storia. Assente, invade le lenzuola, il balcone, il divano.  Presente, ci allontana dal mondo.

        Guardando il paesaggio, Bridget, seduta in pullman, batte il tempo su una borsetta con un dito guantato di nero. I suoi capelli, illuminati dal sole nascente, sono dello stesso colore del lontano canneto che accompagna il suo viaggio. Sta guardando un punto della strada. Ha appena lasciato Montreal per ritrovare Québec e i suoi pesanti edifici.

Oltre al chiasso della città, c’è sempre una canzone. Nei bar, gli autobus, i ristoranti, sui marciapiedi.  Sempre una canzone. Anche gli alberi sembrano essere invasi dalle canzoni. I cani, i muri, gli uccelli.
I corridoi ricoperti di un blu ghiaccio.

Ho capito solo oggi che il mio libro dovrà farsi nei bar.  Nel rumore e nelle conversazioni interminabili, esacerbate, nate dalla strada. Questo è il materiale ai miei piedi, contro il mio corpo e nei miei occhi. La città. Calore elettrico. Le caldaie invadono il cielo.
I sotterranei collegano le tane. Bar tra ubriachezza e realtà. Incontri per stasera, domani.

Sono rimasto lontano dagli uomini. Oggi non erano per me.  La città si ripete e io non ho più la forza di sopportare il rullio dei suoi tamburi.  Come un contadino stanco di percorrere terre aride, mi dilungo a piazza Victoria di fronte a un addobbo urbano, un campo di grano con spighe larghe carichi di neve e che non verrà mietuto!

        Camminiamo giorno e notte in una città senza orologio.  Fuori dal tempo. Un terreno incolto e stretto ci darà esattamente l’ora e la luce che si ritira dal giorno.

        Stavo leggendo, tanto per dire di fare qualcosa, mentre aspettavo di prendere l’aereo nella direzione opposta.

Il mio romanzo, appena uscito a Parigi, è su una barca, in fondo alla stiva. Tra Le Havre e Montreal affronta l’onda in un cartone. Forse migliora come il vino che dondolavano le onde tra Ernakulam e Marsiglia, tra Bordeaux e Shanghai.

Con chi parla della traversata, di tutto quel nero impacchettato? Forse ha fatto lo stesso viaggio di mio padre, che infornava il carbone nella grande caldaia del Pastore, con un uistitì addormentato in tasca. Si sarà preso il tempo con l’animale di ammirare la bocca infuocata sul fondo della stiva? Tre settimane in mare approfondiscono le parole.
L’orologio di mio padre continua il suo viaggio. Tanti cieli schiacciati nel suo infimo rumore.

Riconoscerò quello che ho scritto?  Nel frattempo, in memoria di mio padre, ascolto una chitarra nel parco Saint-Louis. Una notte nella notte.

Joël Bastard

LA CLAMEUR DES LUCIOLES

Joël Bastard

à Franck Deweare
à Alain Fisette

 

On commence une phrase, quelques mots nous viennent de l’informe et on continue de lire ce qui s’écrit, emporté par le plaisir et la curiosité. Sans rien deviner de la chute, de l’impasse comme de l’envol possible, de la fin du voyage. De la même façon on marche dans une ville étrangère, de porte en porte, de visage en visage. On ne connait de ce jour, ni la dernière porte, ni le dernier visage. Une phrase s’éteint, les mains serrées sur la rambarde d’un balcon, une ville dans les yeux.

Je vais sortir. Je dois sortir. Marcher dans les rues, écouter la ville. Voir le pas des maisons. Voir les habitants entrer dans ces maisons et en sortir. Plus que tout, je dois aller voir le fleuve, le chemin qui marche, le Magtogoek des amérindiens, le fleuve aux grandes eaux. Le Saint Laurent. Mais peut-être ne sera-t-il plus là. Peut-être que le fleuve aura disparu au fond de la nuit dans le cerveau d’un homme qui le rêvait. Peut-être que le fleuve et tous ses transports de pommes douces, de sel et de farine, coule pour toujours dans le crâne d’un inconnu disparu en forêt. Peut-être que le fleuve que nous voyons là est une illusion, le reflet de la pensée d’un homme étendu sous les branches et que le chemin qui marche le protège maintenant de son absence.

En nouant mes chaussures pour la première fois ici, d’anciennes marches me reviennent. Dévalement de collines. Frôlements de prairies. Accompagnements de rivières, de murs et de barrières. De villages et de forêts. Pénétrations de terres. Il est temps de rejoindre le fleuve aux grandes eaux. Le jour est presque au complet.

Les clochards dorment loin des murs, loin de l’urine. Les condamnés dorment dedans. Les sirènes des ambulances gloussent dans les rues et du vingtième étage où je réside depuis peu, buvant un café en plein vent, on se dit comme Edward Limonov qui avalait sa soupe du haut de son building New Yorkais, j’avalerai aussi la ville, moi le pauvre majordome. Mais on n’en fait rien. On devient, au couchant de sa vie et revenu sur terre, un collectionneur de moments perdus. On laisse tout là-haut sur le bord d’une terrasse quelques déchets de cuisine pour des oiseaux improbables.

Le besoin de s’élever pour voir de loin où nous nichons. Du Mont Royal on peut voir sa rue, son immeuble, son balcon et plus loin le pays d’où nous venons. Le besoin de préciser où nous vivons et d’où nous venons, mais de loin. Comme si la lune avait du mal à tenir immobile au dessus de la ville. Dans ce boucan lumineux, ce va-et-vient routier, des bruits de talons sous les arbres noirs du square Saint-Louis. Ça gueule en bas. Ça gueule à la ville de se taire. L’homme aimerait que tout cesse. Les lumières, les sirènes avec ses corps malades, ses urgences, ses infirmiers qui fument le dos contre l’ambulance, attendant le prochain transport de chair blessée. Ça gueule, l’homme aimerait du silence et que les tentations s’assoupissent dans les chèvrefeuilles décharnés du mont. Il faudrait des canapés pour les hommes brisés dans les entrepôts obscurs des brasseries monumentales.

Il aimerait fouler une prairie sur le pont Jacques Cartier. Une prairie enjambant le fleuve où les bêtes brouteraient l’immobilité de l’azur. Il donne des coups de pieds dans les ordures et insulte son frère à qui il réclame de l’argent. Il est piégé. Il ne peut plus, ne sait plus dire oui au boss. Ses muscles sont atrophiés et sur l’écran de télé couché dans la rue il contemple son reflet ras l’asphalte envahi par le tournis flamboyant des voitures. Dans le bouillon nocturne il n’espère qu’une seule chose, que tout cesse. Il ne sait que faire de cette miette d’espérance au fond de sa chaussure et qui le fait boiter dans la foule.

Qui me dira si je dois descendre du haut pont pour que mes yeux dérivent parmi ceux de Montréal profonde.

Marcher en ville est sans repos, Sainte-Catherine le prouve. Elle qui se donne de tout son long et reprend aussitôt l’objet de notre désir. Les arbres ont du mal à tenir leur ombre en paix. Les chevaux abattus, têtes basses, lèvres aux pavés, cheminent dans le vieux Montréal. Couleur bubble-gum ils mâchouillent la rue. Transportant le vieux monde d’une histoire oubliée à l’autre incertaine.

Une marée d’équinoxe. Un bruit de fleuve immense. Un bruit de ressac, la mer avec abondamment de rochers. De falaises publicitaires. Un bruit de vent dans les roches et des voix dures et tendres, claquent et s’attendrissent. Des camions embrayent la nuit. Des crissements automobiles, une fanfare de plumes. Un homme parle à celui qui de l’autre côté de la rue passe.

Quelques herbes jaunes, genre épervières, ce qui convient comme nom à cette hauteur, secouées par des rafales de vent et de pluie, se fichent bien de leur lieu de résidence. Elles poussent, un point c’est tout !

Une fois tes proches disparus pour toujours, tu pourras voyager sans soucis. Ils te manqueront partout où tu résideras.

Maintenant les cent clochers de Montréal sonnent à tous vents. Y aura-t-il des prieurs pour descendre dans la rue, traverser les bourrasques. Se cramponner à un parapluie retourné comme un gant et qui ne sert plus à rien. A la télévision des meurtres à gogo ne font de mal à personne. On commandera un plat mexicain et de la boisson. Tu sais on n’est pas obligé de faire l’amour. Le ciel n’est plus qu’un nuage gris. Et si on mettait une bonne giclée de mayonnaise sur la rambarde du balcon et du Ketchup dans la jardinière. Il faut de la couleur au temps qui passe sur les toits. C’est insupportable ce manque de vision.

Encore une fois j’arrive trop tard. Après les lilas et les seringas, les chèvrefeuilles et les verges d’or. Après les pivoines sous les escaliers, les tournesols dans les jardinets.

Mont Royal n’est rien qu’une grosseur innommable dans le cadre vitré de nos salons. Une tache plus sombre, un déversoir de brume. L’objet de tous les phantasmes urbains.

De vieux pères de famille traversent des parcs glacés. Mains dans les poches, coupent par l’oblique franche d’une place déserte. Ils rejoignent des amis dans des bars italiens. Le dos contre la baie vitrée, ils discutent de ce qu’ils ont perdu et des petites réussites. La maison. La fille retournée en Europe. La peinture de la cuisine qu’ils viennent de refaire. Le voyage à Milan pour les cinquante ans de mariage. Le dos contre la vitre, ils discutent de l’hiver qui s’en vient. Ils n’ont plus besoin de regarder dehors, le trottoir, les façades des maisons. Le poste à essence qui donne un peu d’espace au quartier étouffé de briques rouge. Mori, le coiffeur, assis lui aussi le dos à la rue, lit son journal. Leur quartier baigne entièrement dans le magma de leur mémoire. Il faudrait qu’un beau matin tout ceci soit recouvert d’une neige bleue pour qu’ils restent dehors et se taisent comme des enfants devant la première fois.

Je me décide à rentrer dans un café après tous ces jours dans la rue. Même les oiseaux sont attablés à l’intérieur. Les cafés sont toujours grands, il peut faire toujours froid.

Les clochards s’abandonnent sous les beaux escaliers de Montréal. Comme partout ils s’abandonnent dans les beaux lieux. Rome, Paris, Genève…Abandonnés des lieux, ils se roulent en boule en attendant la neige. Pour Halloween, ils jetteront des citrouilles bien juteuses à la déneigeuse pour faire accroire à l’employé municipal que leur crâne a explosé en dormant trop fort sous le manteau blanc.

Je m’endors ici en un cerveau immense. Une pensée parmi des centaines de milliers d’autres. Une ces pensées qui vont à pieds sous le front des buildings, invisibles entre les feuilles de verre. Dans les artères encombrées d’autres pensées circulent en voiture. Ici je m’endors en un rêve immense. Rêve parmi les rêves. Clignotent sur mes paupières les lueurs envoûtantes d’un ciel qui file d’une étoile à l’autre. Ici je m’endors épuisé du désir des autres. De toutes ces mains tendues dans le vide. Pensé par celui qui vient j’attends mon tour.

M’écartelant sur les toits enfumés de Montréal. Le désir d’écrire est là, bruyant de pistes, les brouillant. J’ai marché durant des jours dans cette ville jusqu’à l’épuisement. Le calme d’une chaise au milieu du salon m’aidera sans doute à ouvrir les yeux sur l’invisible.

Au moins, si je ne sais pas trop quoi écrire alors le désir piétine, j’irai donner mes yeux a cette lumière enjôleuse qui fait le trottoir.
Gravée en lettres d’or dans le marbre d’un banc sur lequel je n’attends rien, ni personne. Des camions remontent une rue froide et laide, ils vont livrer leurs paquets de nourriture reconstituée en campagne. Je suis brouillon comme ce trottoir où rien ne tient. Des solitaires, les mains dans les poches sont déjà comme en hiver. Je suis brouillon, rien ne s’écrit. La ville bruit, les phares sont encore allumés. Ce côté-ci de Mont Royal est sans élégance. Des enfants roses serrent une peluche sur leur poitrine dans l’illusion d’être mieux accompagnés. Les goélands sont en ville et se font écraser comme tout le monde.

Souvent dans les voyages, on peut s’asseoir dans un square sans nom, gris, sale, sans intérêt aucun. On peut ainsi, n’attendre rien et vaguement se poser des questions sur sa situation. Un peu de loin. On entend à peine la question. On ne la comprend pas vraiment. Alors, on s’en pose une autre tout aussi inintelligible. Une question chasse l’autre. Ce square peut être vide avec toujours des pigeons qui fouinent, ou des rats, ici des écureuils mais c’est la même chose. La ville est dans ce cas fière de ses rats panachés.

Un parapluie noir peut longer lentement le square. Une femme en survêtement blanc, toute à sa musique et à ses jambes, peut le traverser sans le voir tel un éclair musical pour bien être en ville. On peut lever les yeux sur un chêne abîmé par le manque de place dans la rue pour ses branches. On peut penser à autre chose. On ne sait toujours pas à quoi. C’est curieux, c’est toujours après coup, bien des années plus tard, que l’on se souvient de ce moment devenu inestimable et du bonheur d’avoir passé là un temps, nulle part. De retour à des milliers de kilomètres de ce refuge, on aimerait retrouver le nom de ce square où l’on s’était bien reposé de toutes nos pensées contradictoires qui nous préoccupaient. Et l’on se souvient avec tendresse de l’éclair blanc d’une femme sans visage.

Je dis que je travaille dehors, je marche et j’écris. Je suis dehors, dans la rue, mais je ne sors pas de moi. J’ai beau faire des efforts surhumains, je ne sors pas de moi. Tout ce que je perçois existe par moi. Ce phénomène est connu de tous et cela m’épuise. C’est seulement lorsque je compose avec le temps, par exemple dans ce square sans importance, que peut-être je peux tenter une sortie.

Il fait froid dans le Carré Saint –Louis. Je lis Leçons pour un lièvre mort de Mario Bellatin. Je cherche toujours chez les autres auteurs ce qui n’existe pas chez moi. Une sorte de franchise. Une efficacité narrative. Une bonne frappe sur un clavier. Je regarde la pointe noire de mon feutre sur mon carnet, l’esprit noyé par le chambard de la fontaine.

La poésie m’a laissé sur le bas côté de la page. Je prends des notes et continue de marcher. A faire ce que je peux. Je la devine sous chaque chose. D’autres questions se posent sur l’écriture du monde et de son écho. D’autres questions se posent et encombrent à nouveau la vision. Je retournerai donc à l’atelier pour affûter mes outils qui commencent à perdre sérieusement de tranchant.

Entre deux songes, je veux descendre dans la rue sous le grand plafond noir, ce qui rend les lumières basses plus humaines. Je veux marcher dans les miroirs et les paroles blanches. Epuiser ma présence aux mouvements de la ville. Dans les pas du clochard, un instant dans sa glace, le scintillement des tours.

Je marche sur l’ancienne voie ferrée, en compagnie des renards, des mouffettes, des orignaux, des ratons laveurs et des caribous. Les passagers du temps roulent encore, invisibles. De temps en temps je laisse passer un train fantôme. La femme assise dans la vitesse, qui donne ses yeux intenses au paysage, porte en elle le silence de tous les amours. Revenant sur les traverses qui scandent la vision je veux écrire le transport des cités et des hommes. De celui qui va là-bas avec seulement ses mains et qui reviendra bredouille car il faut bien vivre. Je veux chanter la roue qui prend le robuste comme l’élégante, le jaguar comme le moucheron. Le ciel est un détail du cosmos, un éclat villageois pour nos races. Et le train fantôme roule dans un pays qui n’est plus. Sous les traverses d’un espace infini siffle une chanson que le blues reconnaît.

Parfois la nuit je vais si loin, même si je ne me souviens pas du lieu de cette errance, que je me réveille inquiet. Je suis revenu, mais d’où ?

On peut observer une jeune fille contemplative assise dans l’herbe, le dos appuyé contre le plus large tronc. Et qui regarde de loin, vaguement, les voitures passer rue Sherbrooke. Bien choisir son arbre pour exacerber sa nature. Bridget discutait toujours avec son ombre au fond du parc. Elle la trouvait trop épaisse. Bien trop lourde pour l’allée de noisetiers. Elle avait donné rendez-vous à un ami mais le regrettait déjà. Elle porte sur son épaule quelques colchiques et la signature de sa mère, en dessous. Sur son pied le numéro 57 de la moto de son frère près de l’empreinte de la patte de son chat. Trois tatouages de ses chers disparus qu’elle me révèle comme on se déshabille de tout. Trois tatouages sur la peau d’une jeune femme qui attend un enfant tout en mangeant une glace de toutes les couleurs au fond d’un grand pot en carton avec une cuillère à soupe.

Bridget est passée me voir. Les jambes dans des bas bruns sur un canapé vert, elle m’a soufflé, c’est bien noir ce que tu écris ici. Avec toi, même l’écureuil devient rat. C’est que l’écureuil n’est ni plus ni moins qu’un rat. La beauté est en toutes choses nous le savons. Je lui avais parlé de la clameur des lucioles. De l’enseigne douce des taxis qui filent dans les avenues aux magasins insensés et de leurs objets inutiles si beaux la nuit comme des bijoux. Les hôtels aux accouplements chaloupés des fins de soirée à la sortie d’un pub. Nous sommes au bord du Saint-Laurent. Les transporteurs remontent le fleuve de l’estuaire à Pointe au Père. L’étroitesse des eaux les fera s’en retourner en mer pour d’autres chargements. Comme ce visage que je tiens dans mes mains et qui flétrit à force d’âge, la beauté d’une rose alors que dans un vase elle ne pousse plus. Elle revient à son essence première. La beauté d’un visage qui s’en va. Le mot rat transporte la peste, mais elle n’est plus. Ces digressions m’épuisent. Ces justifications ne me servent qu’à écrire encore un peu. Je veux rester dans la course noire de mon feutre sur le riff d’une guitare. C’est cela écrire dans un bar en compagnie de personne. Je joue là la grande figure du musicien qui arpente la scène, ne salue qu’une masse. Ne plus pouvoir s’arrêter d’écrire. Porté par l’exigence du lieu qui est de parler. De parler encore. Je laissais Bridget sur son canapé pour boire une bière opaque à sa mémoire.

Dans le froid humide de la rue , portant le livre d’un autre en moi . Etant dans l’inertie bouleversante de la lecture .

Je dis non, encore non de la tête, aux mains tendues. Trop de mais tendues pour revenir à mon appartement. Les quêteurs ont fini d’assassiner l’écho d’un livre en moi. Demain je donnerai ma pièce au premier clochard venu!

Il avait maintenant peur d’écrire, après avoir brisé, à la fin d’un repas, un biscuit dans un restaurant chinois, duquel était tombée une phrase imprimée en rouge, N’écoutez pas les mots vides d’une langue creuse. Il errait dans la ville en ne pensant à rien et sa solitude grandissait dans le ronflement écœurant d’une animation vaine. Les clochards devenaient à ses yeux des seigneurs innocents. Leur lenteur le reposait de la grande illusion urbaine. Son séjour en Amérique du nord était aujourd’hui vide de sens et ce morceau de papier qu’il gardait au fond de la poche lui gâcha la journée pour toujours!

Et puis des cils assouplis de lumière.

Tard dans la nuit et personne, que je puisse embrasser. Immobile dans les graines, force est de reprendre la marche à la rencontre de ceux qui vont. L’immobilité est ici impossible, la rue nous force à devenir ou alors à ressembler à ce tas de linge sous l’escalier. Je vois une main qui traine dans la saleté près d’une bouteille de vin couchée, elle aussi, dans le trouble. C’est comme cela que je gagne la moitié de ma vie, l’autre moitié je la donne . Les squelettes reviennent d’un long pèlerinage. Ils rapportent du lointain des visions frissonnantes de lumière et laissent maintenant passer les éclats de la ville.

Pas de braillements de renards roux. Le sommet, la clairière, la fougeraie, le serpentin, les escarpements, la pente rocheuse, le piedmont, la côte placide À Roslyn, les jardinets s’enflamment devant des portes closes et des fenêtres vides. Les hortensias laissent passer la lumière. Pourtant de l’ombre frémit dans les feuilles recoquillées du matin.

Ici, je n’ai d’oreilles que pour les camions, les bennes à ordures, les grues, les sirènes. Les arrachements de tôles, les gerbes d’étincelles des disqueuses qui éclairent les fosses. Si par hasard dans ce vacarme un oiseau réussi sa note au pavillon, il est déjà trop tard. La rue a repris le dessus pour l’étouffer de sa toupie à béton avec le buisson qui l’abritait. Les dernières outardes dans le rose et le bleu, dans le laiteux du soir, traversent le ciel d’une ville qui allume ses feux de nuit. Un avion à hélice coupe leur vol pour ajouter une deuxième trajectoire au regard porté sur la deuxième mélancolie. La cervelle déliée comme celle d’un ange, c’est ainsi que l’on écrit en ville ! Je vais à mille lumières d’ici et dans le bois le plus noir je vise une fenêtre. La marche est sans lune mais le chemin aisé. Longue marche. Je m’approche, je frappe à la porte. On m’ouvre, personne ! Je m’assois à la fenêtre dans le bois le plus noir et j’attends.

Bridget est passée cette nuit durant mon sommeil dans la rue Duluth. Sa taille aiguisée par le vent. Une boucle d’oreille piétinée sur le trottoir. Lune d’argent cabossée parmi les étoiles de sang à la sortie d’un bar. Elle ne se décide pas à choisir, ivre sur les genoux de tous les hommes, une dose de cocaïne dans la poche.

Bridget est passée comme un rêve. C’est toujours la même affaire avec elle. Absente elle envahit les draps, le balcon, le canapé. Présente elle nous éloigne du monde.

En regardant le paysage, Bridget, assise dans l’autocar, bat la mesure sur un petit sac à main, d’un doigt ganté de noir. Ses cheveux illuminés par le soleil levant sont de la même couleur que la roselière au loin qu’accompagne son voyage. Elle regarde un point sur la route. Elle vient de quitter Montréal pour retrouver Québec et ses bâtiments lourds.

Il y a, en plus du tapage de la ville, toujours une chanson. Dans les bars, les autobus, les restaurants, sur les trottoirs. Toujours une chanson. Même les arbres semblent envahis de chansons. Les chiens, les murs, les oiseaux.

Les couloirs plafonnés d’un bleu de glace.

Je viens de comprendre seulement aujourd’hui que mon livre ne se fera que dans les bars. Dans le bruit et les conversations interminables, exacerbées, nées de la rue. Quelle est cette matière à mes pieds, contre mon corps et dans mes yeux. La ville. Une chaleur électrique. Des chaufferies envahissent le ciel. Des souterrains lient les tanières. Des bars entre l’ivresse et la réalité. Des rendez-vous pour ce soir, demain.

Je me suis tenu loin des hommes. Aujourd’hui ils n’étaient pas pour moi. La ville se répète et je n’ai plus la force d’encaisser son roulement de tambour. Comme un paysan fatigué d’arpenter des terres arides, je m’attarde place Victoria devant une décoration urbaine, un champ de blé aux larges épis lourds de neige et que l’on ne moissonnera pas!

On marche jour et nuit dans une ville sans horloge. Hors du temps. Un terrain vague, même étroit, nous donnera précisément l’heure et la lumière qui se retire du jour.

Je lisais, pour dire de faire quelque chose, en attendant de reprendre l’avion dans l’autre sens.

Mon roman qui vient de paraître à Paris est sur un bateau, à fond de cale. Entre Le Havre et Montréal il prend la houle dans un carton. Peut-être se bonifie t-il comme le vin que balançaient les vagues entre Ernakulam et Marseille, entre Bordeaux et Shanghai.

Avec qui discute t-il de la traversée, de tout ce noir empaqueté ? Peut-être fait-il le même voyage que mon père qui enfournait du charbon dans la grande chaudière du Pasteur, un ouistiti endormi dans la poche. Prenait-il son temps avec l’animal pour admirer la bouche ardente au fond de la soute ? Trois semaines en mer approfondissent les mots. La montre de mon père continue son voyage. Tant de ciels broyés en son bruit infime.

Vais-je reconnaitre ce que j’ai écrit. En attendant, à la mémoire de mon père, j’écoute une guitare dans le square Saint-Louis. Une nuit dans la nuit.

.Joel Bastard

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